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QUESTO SITO STA CON IL PAPA

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giovedì 27 agosto 2009

Un avvenimento senza precedenti nella Settimana Santa molfettese del 1934

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Nell’elenco dei vescovi che si sono avvicendati nella nostra sede episcopale, troviamo Mons. Pasquale Gioia, vescovo della diocesi dal 1921 al 1935.
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Nativo di Santa Croce del Sannio (Benevento), apparteneva all’ordine dei Somaschi (dal nome della loro prima fondazione a Somasca, nel comune di Vercurago). Fu nominato vescovo di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi il 30 settembre 1921, quando era parroco della chiesa di S.Martino in Velletri, da Papa Benedetto XV e consacrato il 1° novembre dello stesso anno nella Cattedrale di S. Clemente della stessa città. Egli fece il suo ingresso nella nostra città il 5 novembre dello stesso anno e assunse come motto araldico: “Fortiter et suaviter” (Fortemente e dolcemente, ovvero con forza e con dolcezza).
Fu uomo energico, rigoroso e impulsivo, intransigente e rigido; qualità che spesso suscitavano antipatie nelle persone che egli spesso riprendeva, laici o preti, sia in pubblico che in privato, anche durante le funzioni liturgiche.
Possiamo dire che il suo episcopato fu incentrato nella realizzazione di quattro punti essenziali a cui si dedicò con tenacia e dolcezza per essere in linea con il suo motto:
1) la costruzione della chiesa del Sacro Cuore di Gesù su un suolo donato da Domenico Gagliardi;
2) lo sviluppo dell’Azione Cattolica;
3) curare lo spirito religioso della diocesi;
4) la realizzazione del bollettino interdiocesano “Luce e Vita”, di cui il primo numero vide la luce l’11 luglio 1925.
Morì il 1 aprile 1935 e i suoi resti riposano nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù, da lui voluta. La tomba è contraddistinta da un’artistica stele funeraria, opera dello scultore Giulio Cozzoli. In essa spicca il grande medaglione con l’effigie del vescovo in marmo di Carrara.
Durante il suo episcopato, i rapporti con l’Arciconfraternita della Morte furono tutt’altro che sereni. Contrario allo sperpero nelle feste patronali, come all’eccessivo attaccamento alle processioni precedenti la Pasqua, Mons. Gioia, fin dall’inizio del suo mandato episcopale aveva cercato di attuare un ridimensionamento di questi riti tradizionali, agendo con risolutezza e destrezza.
Un esempio di questa sua condotta lo troviamo in un “editto per la Quaresima del 1927”, da lui firmato in data 22 febbraio 1927. Ecco il testo:
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“Ai confratelli della Morte ordiniamo di regolare le processioni di Maria Vergine Addolorata nel modo seguente. Nel venerdì di passione porteranno in processione il gruppo della Pietà, quasi ad indicare il tema del dramma di dolore che cominciava a rappresentarsi. Nella notte del venerdì al sabato santo porteranno invece la Madonna Addolorata con la croce senza Gesù e con Lei tutte le altre statue secondo la consuetudine, curando che la processione esca in tempo per poter rientrare all’ora stabilita”.
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Mala tempora currunt! (Brutti tempi corrono!) si diceva da più parti leggendo quel tassativo e laconico comunicato vescovile. Quale la “ratio” di questo editto? Per Mons.Gioia, il fatto che il sabato santo si portasse in processione il Cristo Morto sulle ginocchia della Madre quando, secondo la cronologia degli eventi, era già nel sepolcro, costituiva un rospo che non riusciva a ingoiare. D’altro canto, gli amministratori della Morte erano irremovibili nella loro secolare tradizione: la Madonna del venerdì di passione era e doveva essere l’Addolorata;
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la Madonna del sabato santo era e doveva essere la Pietà.
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L’ editto del vescovo provocò delle reazioni negative sia nei confratelli della Morte, sia nella stessa popolazione di Molfetta. “A lé Mòrte cheménnìmme néue, ìdde scèsse a cheménné a le prìevete e a le mùnece de la Cappecciàiene” (Alla Morte comandiamo noi, lui andasse a comandare ai preti e ai monaci dei Cappuccini), dicevano i confratelli del sacco nero. A questa intransigente presa di posizione, faceva eco l’intera popolazione: “Re precessiàune nèn ze chéngene, Ménzegnòre scèsse a cheménné o paiàiese da’ddó a venéute” (Le processioni non si cambiano, Monsignore andasse a comandare al paese donde viene).

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Pertanto, l’ordine impartito con l’editto non fu mai eseguito. Negli anni successivi quello che il vescovo potette ottenere fu l’anticipo di mezz’ora all’orario di uscita della processione: cioè l’uscita di S. Pietro alle 23 anzicchè alle 23.30 e l’uscita della Pietà alle 23.30 anzicchè a mezzanotte. In questo modo l’uscita del gruppo della Madonna col Cristo in grembo sarebbe rientrata nel tempo cronologico del venerdì e non del sabato santo.
Ma Mons.Gioia non si dava per vinto, non si rassegnava all’idea di dover rinunciare alle sue proposte innovative per cui con pazienza aspettava il momento in cui avrebbe dato scacco matto all’Arciconfraternita della Morte e al popolo di Molfetta. E l’occasione si presentò nella Pasqua del 1934 allorquando Papa Pio XI (al secolo Achille Ratti) concluse il Giubileo straordinario della Redenzione indetto con bolla “quod nuper” del 6 gennaio 1933 per ricordare il 19° centenario della morte e resurrezione di Cristo. Il momentoculminante di quel Giubileo fu nella canonizzazione di S. Giovanni Bosco (1815 – 1888), fondatore della congregazione dei Salesiani.

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L’Arciconfraternita della Morte, sotto il priorato di Vito Onofrio Binetti, con un suo comunicato, modificò il calendario delle processioni nel modo seguente:

23 marzo (venerdì di passione) alle ore 18 uscita dell’Addolorata, seguendo il tradizionale percorso;

24 marzo (sabato antecedente la domenica delle palme) uscita della Pietà e dopo aver percorso via Morte, via Piazza, e un tratto di corso Dante rientro in Cattedrale. Qui rimase per tre giorni animati da un triduo di preghiere predicato da Mons.Vittorio Consigliere, vescovo di Ascoli Satriano e Cerignola, già Predicatore Apostolico;

27 marzo (martedì santo) alle sei pomeridiane la Pietà fu riportata dalla Cattedrale alla chiesa del Purgatorio, percorrendo corso Dante, via S.Angelo, via Sergio Pansini, via S. Benedetto, via S. Domenico, corso Dante, chiesa del Purgatorio. Si trattò di una solenne processione alla quale parteciparono: il Vescovo, le autorità civili con il Podestà Stefano De Dato, il Capitolo Cattedrale con l’Arcidiacono Mons.Felice Carabellese, il Seminario Regionale con il Rettore Mons. Pietro Ossola il Seminario Diocesano, i Frati Minori del Santuario della Madonna dei Martiri con il Guardiano, Padre Gaetano Spina, i padri cappuccini, le varie Confraternite e Associazioni Cattoliche, e tutto il clero;

31 marzo (sabato santo) all’una di notte, uscita della SS. Vergine Addolorata al posto della Pietà, con le altre statue venerate nella chiesa del Purgatorio.
Almeno per una sola Pasqua, Mons. Gioia potette cantare vittoria. L’ anno seguente (1935) la morte lo colse per un attacco di angina pectoris. “Dum anima est, spes est” (Finchè c’ è vita c’ è speranza), direbbe Cicerone (Ad Atticum).

* Testo del prof. Cosmo Tridente.

* Foto dell' archivio del dott. Franco Stanzione.

mercoledì 5 agosto 2009

San Giovanni nei Vangeli, nei detti e nella cronistoria dell' Arciconfraternita della Morte

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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San Giovanni è l’ultima statua, prima della Pietà, ad uscire in processione, il sabato santo, dalla chiesa del Purgatorio.
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I portatori appartengono alla Congrega di Sant’Antonio da Padova e indossano: camice, cappuccio, mozzetta e cingolo con fiocco bianchi, sulla mozzetta piastra di metallo riproducente Sant’Antonio da Padova.
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Intanto vediamo insieme chi è questo straordinario personaggio.
Figlio del pescatore Zebedeo, Giovanni fu prima discepolo di Giovanni il Battista, poi, alla sua morte, entrò con il fratello Giacomo il maggiore nel numero dei dodici apostoli.
«Mentre (Gesù) camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono» (Matteo 4,18-22). Attenzione dunque a non confondere Giovanni il Battista ...
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... con Giovanni l’Evangelista:
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... il primo, figlio di Elisabetta e di Zaccaria, è il “precursore” preposto a preparare la venuta di Cristo; il secondo, figlio di Zebedeo e di Maria Salome, è il “continuatore” preposto a mantenere la memoria del Cristo fino alla fine.
San Giovanni è citato in alcuni detti popolari molfettesi dai quali si evince che trattasi del Battista: “A Sén Gevénne pìgghie chelùmme e émminele n’ghénne” (A San Giovanni prendi fioroni e mangiali, cioè a San Giovanni maturano i fioroni); “A Sén Gevénne chelùmme n’ghénne a Sén Bìete fàieche appàiese” (A San Giovanni i fioroni sono pronti per essere mangiati, a San Pietro i fichi sono ancora appesi all’albero perché acerbi); “Quénne chiòeve a Sén Gevénne re castégne càdene n’dèrre” (Quando piove a San Giovanni le castagne cadono prima di essere mature); “Sén Gevénne (24 giug.) méitetòere, Sén Bìete (29 giug.) attacchatòere” (San Giovanni mietitore, San Pietro legatore ); “U Sén Gevénne nén ze néiegh’a nesciàune” (Il San Giovanni non si nega a nessuno), cioè il “comparizio”(comparatico) per battesimo, cresima e nozze, non deve mai rifiutarsi perché è una sorta di “creazione” di nuova parentela, frequente tra vicini e conoscenti o utile a rinsaldare vincoli parentali preesistenti. San Giovanni Battista è dunque il tutore del “comparizio” perché secondo i Vangeli battezzò Cristo nel fiume Giordano. Perciò ogni persona, che assume la tutela del battezzato in quanto tale, anche se non è l’esecutore manuale del battesimo, è messo in relazione con colui che, sempre secondo i Vangeli, non solo annunciò e precorse l’opera di Cristo, ma anche con quella cerimonia, diventata le soglia del cristianesimo, lo riconobbe mandato dallo Spirito. Ogni funzione di tutela dell’iniziato ad una nuova forma di vita mediante un sacramento (cresima, matrimonio) ha assunto la stessa definizione di comparatico del battesimo.
San Giovanni Evangelista è, invece, citato in un altro detto, piuttosto colorito nel linguaggio, che è una vera e propria invettiva contro i traditori, quale fu Giuda Iscariota: “Sén Gevénne pìgghieu n’ghénne e fa scettà u venèiene dé n’ghénne” (San Giovanni prendilo per la gola e fai buttare il veleno dalla stessa)
San Giovanni Evangelista è tradizionalmente considerato “il discepolo che Gesù amava”, autore del Vangelo secondo Giovanni, di tre Lettere e dell’Apocalisse che in greco significa Rivelazione. Questo libro profetico, l’unico del Nuovo Testamento, gli fu ispirato da un angelo: «Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dentro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: “Quello che vedi scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese…”».
Quando un villaggio samaritano rifiutò ospitalità a Gesù, che si stava recando a Gerusalemme, Giovanni e Giacomo dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Luca 9,54) , parole che lasciano intendere una fede ardente, mista a reazioni impulsive e veementi. Giovanni deteneva una posizione di privilegio nel gruppo. Durante l’ultima cena il discepolo si china verso Gesù chiedendogli chi lo tradirà (13,23-26). E’ presente nel giardino del Getsemani ed è probabilmente “l’altro discepolo” che seguì Gesù dopo il suo arresto, con Pietro, e che udì quest’ultimo rinnegare Gesù per tre volte, prima del canto del gallo (18,13-16). Unico degli apostoli a trovarsi fra le donne sotto la croce cui Cristo affidò la propria madre affranta dal dolore, dicendo “Donna, ecco il tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre” (19,26-27).
Il passo evangelico è citato da Dante nella Divina Commedia (Paradiso XXV, 112-114):
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“Questi è colui che giacque sopra ’l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto”
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Parafrasando, significa: Questi (l’apostolo Giovanni) è colui che posò il capo, nell’ultima cena, sopra il petto di Cristo (pellicano); ed egli fu da Cristo in croce scelto all’alto ufficio di figlio di Maria. La leggenda popolare narrava che il pellicano fosse un uccello il quale, se morivano i figli, li risuscitava con il proprio sangue, squarciandosi il petto con il becco. Esso simboleggia Cristo che, con il suo sangue, risuscita l’umanità dalla morte delle colpa.
Giovanni fu il primo degli uomini a raggiungere il sepolcro vuoto, accorrendo all’appello di Maria Maddalena e superando Pietro, più vecchio e più lento di lui, ma aspettando poi per farlo entrare per primo (20,2-6). E’ al fianco di Gesù risorto selle sponde del lago di Tiberiade (21,7). Tra i discepoli poi si diffuse “la voce che quel discepolo non sarebbe morto” ma che avrebbe vissuto fino alla venuta di Cristo nella gloria (21,23).
Sappiamo che Giovanni fu una figura importante della Chiesa primitiva e che visse molto a lungo. Suo fratello Giacomo, invece, morì durante la persecuzione dei cristiani da parte di Erode Agrippa I. Gli ultimi tempi della vita di Giovanni sono narrati dalla tradizione orale: dopo un lungo confino nell’isola greca di Patmos (in greco: Πάτμος) si stabilì con Maria ad Efeso (Turchia) dove morì durante l’impero di Traiano, all’età di circa 94 anni. Sembra sia sopravissuto a tutti gli altri apostoli ed è l’unico di cui si sappia con certezza che non subì il martirio.
Giovanni è, inoltre, come dice Dante (Paradiso XXXII, 127-129):

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“Quei che vide tutti i tempi gravi
pria che morisse, de la bella sposa
che s’acquistò con la lancia e coi clavi”
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Cioè: è colui che, prima di morire, vide tutte le calamità e le sventure (tutti i tempi gravi) della Chiesa (de la bella sposa) che Cristo si acquistò con la lancia e con i chiodi che trafissero il suo corpo.
Fino alla Pasqua del 1926 venne portata in processione la statua di San Giovanni Evangelista dello scultore napoletano Francesco Verzella (commissionata dall’Arciconfraternita della Morte intorno al 1829). La statua raffigura l’apostolo prediletto in atto di preghiera e contemplazione con lo sguardo rivolto verso il cielo e le mani congiunte con le dita incrociate.
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In un’assemblea dell’Arciconfraternita della Morte del 19 settembre 1926, il priore pro tempore, Giuseppe Peruzzi, rese noto che la statua di San Giovanni era corrosa dai tarli in maniera tale da non poter più essere portata in processione, ragion per cui aveva preso contatti con Cozzoli per la realizzazione di una nuova statua. Lo scultore ebbe difficoltà ad accettare perché impegnato a completare il monumento ai Caduti di Molfetta; tuttavia aderì alla richiesta, sottoponendosi ad un più intenso ritmo di lavoro.Preparò vari bozzetti, avendo intenzione di raffigurare San Giovanni non con le mani giunte in atto di preghiera, com’era la statua precedente, bensì in una posa diversa. Ma gli amministratori insistettero affinché la nuova statua avesse lo stesso atteggiamento. In caso contrario non sarebbe stata accettata di buon grado dalla popolazione. Cozzoli, seppure malvolentieri, dovette piegarsi. Ma l’ostacolo più grave lo frappose il Vescovo, Mons. Pasquale Gioia. Appena saputo dell’incarico affidato al Cozzoli dalla Confraternita della Morte, ribadì agli amministratori il suo punto di vista: non potersi impartire la benedizione a immagini di cartapesta. Dopo frenetici incontri tra Peruzzi e Cozzoli, si convenne quanto segue: Cozzoli avrebbe plasmato in argilla una statua di sessanta centimetri, completa nei minimi particolari.
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Da questo modello uno scultore veneziano residente a Bari, esperto di riproduzioni lignee, avrebbe ricavato l’intera statua in legno, che Cozzoli avrebbe poi colorato. L’opera era già in fase avanzata, tutto sembrava andare per il verso giusto, quando lo scultore veneziano, che aveva dato segni di squilibrio mentale, impazzì. Abbandonò la residenza di Bari, senza lasciare alcuna traccia di sé. “Non esiste alcun ingegno se non mescolato alla pazzia”, dice Petrarca (Epistola metrica a Zoilo). Un legame fra genialità e pazzia era già noto agli antichi. Un esempio importante è il poeta latino Tito Lucrezio Caro che impazzito, vittima di una passione amorosa, riesce comunque a completare la sua grande opera “De rerum natura”, approfittando degli intervalli di lucidità. L'affermazione di Seneca che "non è mai esistito ingegno senza un poco di pazzia" non è stata finora smentita. Persino gli studi psicologici del XX secolo hanno dimostrato che circa il 25-30 per cento dei grandi scienziati ha avuto qualche disturbo psichico, dalla schizofrenia alla depressione, alla paranoia. Le stesse patologie, oltre a ossessioni, anoressia e asocialità, hanno attanagliato molti artisti: scrittori, musicisti, pittori. Ne erano affetti personaggi come Rilke, Kafka, Goethe, Rousseau, Proust, Van Gogh, Schumann, Wolf, Pavese. Anche Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, soffriva di fobia sociale, che teneva sotto controllo assumendo droghe che "gli scioglievano la lingua".
Fatto sta che l’artista veneziano, con la sua pazzia e irreperibilità, aveva creato grossi problemi sia agli amministratori dell’Arciconfraternita che allo stesso Cozzoli: il tempo stringeva, né si prospettava un’altra soluzione. Per cui Cozzoli eseguì la statua tutta di sua mano e, come le altre, di cartapesta.
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Mons. Gioia fu comprensivo. Senza disdire quanto aveva detto, s’indusse a benedire la nuova statua di San Giovanni la domenica delle palme e fu portata in processione il sabato santo del 1927.
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Ma dichiarò che, a tale proposito, non ci si poteva più attendere da lui ulteriore tolleranza.
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A questo punto, l’uscita del baldacchino retto dai confratelli dell’Arciconfraternita della Morte, segnala che l’uscita della Pietà è imminente, giusto il tempo di cantare in chiesa il “Vexilla Regis Prodeunt” di Venanzio Fortunato.
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Il baldacchino è a otto aste reggenti una coltre di velluto pregiato con galloni e frangia dorati. Sulla fascia anteriore e posteriore si vede lo stemma dell’Arciconfraternita (un teschio con due stinchi incrociati), mentre su quelle laterali è riprodotta una croce in oro.
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* Testo del prof. Cosmo Tridente.
* Foto dell' archivio privato del dott. Franco Stanzione.

martedì 4 agosto 2009

Le mie vacanze in Sicilia - 2^ parte

Durante le mie vacanze siciliane di quest' anno, dopo essere stato a Trapani "città dei Misteri" (Misteri nel senso religioso ... non si fraintenda ...) sono stato a Caltanissetta per incontrare i miei amici nisseni, in particolare Nicola Spena, presidente della Associazione Piccoli Gruppi Sacri e Gianni Taibi, presidente e Console onorario della Real Maestranza.
Appena giunto a Caltanissetta sono andato però in Cattedrale, a rendere doveroso omaggio al Cristo Morto nell' Urna che esce con gli altri quindici Gruppi la sera del Giovedì Santo.
Ovviamente la famiglia è rimasta al villaggio turistico di Cefalù, essendo totalmente disinteressata a tutto ciò che riguarda i miei rapporti con ciò che ha a che fare con la Settimana Santa.
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Subito dopo sono andato presso la sede della Associazione Piccoli Gruppi, dove sono esposte permanentemente tre delle diciannove "Varicedde" portate in processione la sera del Mercoledì Santo.
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Queste sono opere veramente pregevoli, tanto da meritare di essere immortalate attraverso un francobollo emesso da Poste Italiane nel 2000 (il Cireneo).
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L' orazione nell' orto
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La deposizione o "Scinnenza"
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La traslazione
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Ovviamente era inevitabile immortalare l' incontro con il carissimo amico Nicola Spena, "custode" della Scinnenza ...
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... e con Angelo Bruccheri, proprietario della Orazione nell' orto.
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Era già da marzo di quest' anno che, in occasione del Convegno svoltosi a Caltanissetta sul tema della "Settimana Santa in Andalusia, Sicilia, Puglia" a cui ho partecipato come relatore sui Riti Quaresimali e della Settimana Santa di Molfetta, avrei voluto fare un mio personale omaggio alla Associazione Piccoli Gruppi ed alla Real Maestranza; purtroppo causa il fatto che ci sono andato in aereo, non potevo portare molti bagagli al seguito.
Ho provveduto questa volta, consegnando a Nicola Spena un riproduzione su tela di una foto della Pietà, da me realizzata ...
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... e a Gianni Taibi un' altra fotoriproduzione su tela del volto della nostra Addolorata (sempre opera mia).
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Nicola Spena ha provveduto immediatamente a dare una degna collocazione alla nostra bellissima Pietà, nella sede della Associazione ...
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E' una mia grandissima soddisfazione sapere che da ora in poi un po' di Molfetta sarà presente a Caltanissetta, non solo presso la Associazione Piccoli Gruppi, ma anche presso la sede della Real Maestranza, alla quale mi sento molto legato ...
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... ed ovviamente l' incontro con questi carissimi amici non poteva che terminare con un momento di convivialità in un ristorante del centro storico.
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Spero di ritornare a Caltanissetta il prossimo anno in occasione del "Sabatino" della Real Maestranza, in marzo ... impegni quaresimali molfettesi permettendo.
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* Testo e foto di Franco Stanzione.