Suonavano in determinate circostanze: per le feste patronali, per le feste natalizie, per le feste di quartiere. Eseguivano sempre delle marcette e giravano per le vie della città portando allegria e aria di festa tra la gente. Quasi sempre il quartetto era preceduto da ragazzini che, per la gioia, facevano capriole (zeccamétùgne).
Questo complesso subiva una variante musicale e strumentale quando doveva esibirsi nella processione della Croce, del venerdì di passione e della settimana santa, nel senso che ai “piatti”, si sostituiva la tromba e il motivo da eseguire era sempre lo stesso.
La prima uscita del quartetto era prevista, come avviene tutt’oggi, nella tradizionale processione della Croce, a mezzanotte dell’ultimo giorno di carnevale. La Croce dell’Arciconfraternita della Morte è una grande croce latina di legno nero. Al punto d’incrocio del braccio verticale con quello orizzontale, reca un tondo con il volto di Cristo, ancora vivente, con gli occhi aperti. Ciò secondo l’uso preferenziale dell’arte sacra occidentale, mentre l’arte orientale, pur non ignorando quel tipo iconografico, preferisce rappresentare il volto di Cristo sulla croce già spirato, con gli occhi chiusi.
La melodia eseguita dal quartetto è originale e mesta nello stesso istante. Al rullo ritmato del tamburo si mescolano i colpi della grancassa, cui si unisce il suono sottile del flauto, componendo un motivo di tipo orientale, di autore ignoto, venato di struggente malinconia, finchè alla fine interviene la tromba con gli alti e bassi del “ti-tè”.
Volendo fare una recensione tecnico-musicale del motivo, possiamo dire che nella parte del rullo (senza chiave musicale) c’è il ritmo segnato; in quella della tromba, in Do maggiore, c’è il motivo con note precise e sicure: Mi, Do, Sol, Sol. Attraverso il flauto (in chiave di Si bemolle) viene espressa una melodia fatta di terzine basate su semitoni, con semicroma e semibiscroma a coda finale per la tromba.
Prima del “Novus Ordo”, approvato il 16 novembre 1955 dalla Sacra Congregazione dei Riti, quando l’uscita delle processioni della settimana santa avvenivano di notte, un’ora prima dell’uscita, “u témmùrre” girava per le principali vie cittadine, deserte e silenziose, allo scopo di svegliare i confratelli che dovevano partecipare alle sfilate.
I quattro musicanti, come li descrive il prof. Mauro Altomare (“Almanacco illustrato di Molfetta per il 1928”,Tipografia De Bari, 1927), vanno a passi lenti suonando con ritmo cadenzato e monotono; di tanto in tanto sostano con pazienza, cessando di suonare. Ma uno scrollo del capo del dirigente segna l’inizio della ripresa musicale, e i compagni danno mano agli strumenti, con aria muta e paziente.
L’abate Vito Fornari, verso il 1885-86 a Napoli in un incontro con l’avv. Francesco Peruzzi (figlio del compositore Giuseppe Peruzzi) domandò a questi: «A Molfetta c’è ancora l’usanza di suonare il “ti-tè” con la flautata e tamburo?». Alla risposta affermativa del Peruzzi l’abate espresse il desiderio di riascoltare il motivo e poiché in casa Fornari c’era un armonium, il Peruzzi eseguì seduta stante il motivo. L’abate lo ringraziò dicendogli: «Ciccillo, mi hai dato una grande consolazione, mi hai fatto rivivere tempi cari della nostra Molfetta».
Quando ha avuto inizio la processione della Croce? In nessun carteggio risulta l’anno esatto, o quanto meno il decennio, in cui è sorta la consuetudine, da parte dell’Arciconfraternita della Morte, di portare la propria Croce per le strade cittadine, in un corteo processionale, allo scoccare della mezzanotte del martedì grasso, per dare un inizio formale al periodo quaresimale: avvertimento e richiamo, per il popolo dei fedeli, alla transitorietà della vita, alla ineluttabilità della morte e, quindi, invito alla penitenza.. La congettura più probabile è che la processione abbia avuto inizio subito dopo il 1860 cioè dopo la costituzione del Regno d’Italia, perché anche a Molfetta si instaurò un clima di liberalizzazione e, in un certo senso, di laicizzazione, rispetto alla precedente situazione.
Fino agli anni cinquanta del secolo scorso la processione della Croce, più che l’inizio della quaresima, segnava la fine del carnevale. A quell’epoca, a Molfetta, il carnevale era una data lungamente attesa nell’anno. Aveva un significato esplosivo; era l’occasione per sovvertire burlescamente l’ordine costituito: ci si mascherava con poco, ci si ritrovava nelle strade, fra uno stridìo di trombette, il lancio di polveri colorate, di confetti di farina. Si ballava nelle piazze, si improvvisavano scenette come quella del corteo nuziale, in cui la “sposa” (uomo travestito) aveva sul capo un velo bianco e tra le mani, invece del bouquet un mazzo di verdura, spesso di ravanelli. Capitava che la “sposa” recasse già in braccio un neonato, oppure che sul più bello arrivasse la “moglie legittima”, un omone in avanzato stato di gravidanza, circondato da una torma di figliuoli, a sorprendere il fedifrago e a ridurre a mal partito la rivale a colpi di ombrello.; si organizzavano balli nelle case e nei luoghi pubblici. Negli ultimi giorni di carnevale, e specialmente nell’ultimo (martedì grasso) tutta la città sembrava preda di una follia generale. Una volta l’anno, per uomini e donne, giovani e vecchi “era lecito insanire”.
A mezzanotte le campane delle chiese annunciavano con i loro rintocchi mesti e lugubri l’inizio della quaresima, richiamando gli uomini alla realtà della loro condizione terrestre, ricordando l’illusoria vanità delle gioie, la brevità dell’esistenza, l’appuntamento inevitabile con la morte. La processione si aggirava per le strade seminate di coriandoli, mettendo in fuga le ultime maschere solitarie, sparute falene nel grembo luttuoso della notte. Laddove transitava la Croce, le finestre ancora illuminate si spegnevano, nelle case le musiche si fermavano, cessavano i balli e non erano pochi coloro che, abbandonati gli abiti carnascialeschi, seguivano il corteo processionale. La Croce passava come un angelo sterminatore delle baldorie sfrenate, come un fuoco purificatore dell’inverecondia, dell’immoderatezza cui si era lasciati andare in quei giorni. Dove essa non giungeva, arriva l’eco del suono della tromba: universale, apocalittico, come il risveglio dei morti alla fine del mondo.
Ora, nel nuovo stile inaugurato dalla Chiesa cattolica, in conformità ai dettami del Concilio Vaticano II, la processione della Croce ha perduto quel tono scorante, comminatore di pene, per assumere il carattere penitenziale, fiducioso e consolatorio di tutti i credenti.
A questo punto sembra opportuno concludere con un pensiero di don Tonino Bello, sul quale dovremmo tutti riflettere: «Non c’è nessuno di noi che non parli con eloquenza del “legno santo”, o che in Quaresima non canti con tutta l’anima il “Vexilla regis”, o che nel venerdì santo non intoni l’inno alla “Crux fidelis”. La croce rimane sempre al centro delle nostre prospettive. Ma noi vi giriamo al largo. Troppo al largo. Prendiamo una extramurale lontanissima dal colle dove essa s’innalza. E’ come quando, in viaggio, si sfiora una città passando dalla tangenziale. Mentre l’automobile corre sulla strada, si dà ogni tanto un’occhiata ai campanili che si ergono e alle torri che svettano. Ma poi tutto finisce lì. Purtroppo la nostra vita cristiana non incrocia il Calvario. Non s’inerpica sui tornanti del Golgota. Passa di striscio dalle pendici del luogo del cranio. La croce l’abbiamo attaccata con riverenza alle pareti di casa nostra, ma non ce la siamo piantata nel cuore: Pende dal nostro collo, ma non pende sulle nostre scelte: Le rivolgiamo inchini e incensazioni in chiesa, ma ci manteniamo agli antipodi della sua logica. Dobbiamo ammetterlo con amarezza. Abbiamo scelto la circonvallazione e non la mulattiera del Calvario. Abbiamo bisogno di riconciliarci con la croce e di ritrovare, sulla carta stradale della nostra esistenza paganeggiante, lo svincolo giusto che porta ai piedi del condannato!».
* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.
* Foto realizzate dal dott. Franco Stanzione nel 1975.