Quando sono nate le marce funebri?
Il letterato e poeta
Giacinto Poli, nel dare alle stampe nel 1851 a Napoli “Una
processione del Venerdì Santo” scriveva che «soffermandosi di
alquanto la processione in assegnati punti, soglionsi cantare varie
strofette allusive alla circostanza, tra le quali quella del O
vos omnes qui transitis per viam». Così
incomincia una delle Lamentazioni di Geremia (1, 12), che Dante
riporta testualmente nella Vita Nuova (VII). Da ciò si
arguisce che anticamente, almeno sin alla prima metà dell’Ottocento,
la processione non era accompagnata dalla banda come oggi si intende,
ma appare più probabile che questa (processione) abbia inizialmente
sostenuto il canto, per poi gradatamente limitarsi ad eseguire le
marce funebri che via via entravano a far parte del repertorio
molfettese.
Quante sono le marce funebri?
Sui libretti musicali
della banda se ne contano 18, ma ci sono altre, fuori libretto, che
vengono raramente eseguite perché ritenute tecnicamente “difficili”
da concertare o non adatte al lento e grave incedere dei portatori
delle sacre immagini.
Il repertorio delle marce
funebri destinate alle processioni della Settimana Santa è giunto a
noi grazie al lavoro del copista Vincenzo Avellis (1868-1954).
L’attività di Avellis è oggi nota attraverso i manoscritti
musicali custoditi in vari luoghi di Molfetta: la Biblioteca
Comunale, l’Archivio dell’Arciconfraternita della Morte e
dell’Arciconfraternita di Santo Stefano. Nella Biblioteca Comunale
sono custodite numerose copie di marce funebri realizzate tra il 1928
ed il 1945; tra esse assumono particolare valore storico quelle poco
conosciute odiernamente come La Congiura dei Giudei, composta
dal maestro di cappella della Cattedrale di Matera, Vincenzo Tritto
(1846-1918) e Pianto di Madre di Raffaele Caravaglios
(1864-1941).
Chi sono i compositori?
A Molfetta è
particolarmente acclarato il ruolo assunto da una triade di
compositori “per banda” che in qualche modo dominò gran parte
dell’Ottocento e del Novecento. Vincenzo Valente (1830-1908),
Saverio Calò (1845-1908) e Francesco Peruzzi (1863-1946). In realtà
ad essi andrebbero aggiunti Sergio Panunzio (1812-1886), del quale è
andata persa La Tradita (marcia funebre composta per la morte
di Ferdinando II) e Giuseppe De Candia (1836-1904), autore di due
marce funebri, di cui una s’intitola Marcia n.4, meglio
conosciuta dal popolo come marcia du vòeve perché gli
intervalli musicali che caratterizzano il controcanto iniziale
provocano una successione di suoni che sembrano imitare il muggito
del bue.
A partire dagli anni ’60
del secolo scorso si sono fatti strada giovani compositori.
Ricordiamo: Giovanni Picca (con la marcia funebre “Venerdì
Santo”), Alfredo Fiorentini (con le marce “A mio padre” e “Una
vita incompiuta”), Damiano Binetti (con le marce “Alba di
passione” e “In morte del Maestro Angelo Inglese”), Michele
Consueto (con la marcia “Shalom”), Mauro Spagnoletti (con la
marcia “Michele”), Giuseppe Inglese (con le marce “Paolo” e
“In memoria di Gina Altamura”), Giuseppe Amato (con la marcia
“Mestizia”), Angelo Inglese junior (con la marcia “Crepuscolo”).
Sensibilità dell’animo molfettese
Gerardo
de Marco, nel suo libro “Dalle Ceneri alla Settimana Santa” ha
scritto che le marce funebri altro non sono che «composizioni
musicali alquanto orecchiabili, dalla dolce vena melodica, esprimenti
dolore e tristezza (come peraltro è consono all'atmosfera di
mestizia del Venerdì e Sabato Santo) che palpitano, anche nei
titoli, di ricordi nostalgici e tristi, di emozioni, di sentimenti
popolari semplici e genuini. Un mondo fatto di piccole cose che
rispecchia e riflette l'animo e la vita del molfettese, il suo
quotidiano lavoro faticoso, sia esso dell'artigiano rinchiuso nella
bottega, che del contadino confortato dallo stormire delle
foglie o del marinaio cullato dallo sciabordare delle onde. In
certi passaggi musicali si è portati a immaginare lo
sbatacchiare delle vele ed il sibilo del vento tra il sartiame delle
barche, la dolcezza di un tramonto sul porto, l'angoscia di un
temporale imminente oppure la carezzevole nenia di una madre che
amorevolmente culla il figlio.
Quante
vicende sono celate nei titoli delle composizioni? Non lo sapremo mai
compiutamente,
eppure «Lo
sventurato», «L'ultimo addio», «Tramonto tragico», «Povera
Rosa», «Doloroso addio» -
per citarne alcuni - lasciano intuire un mondo di affetti, di
sofferenze e di dolore che ognuno può ripercorrere ricordando
le proprie esperienze quotidiane. In questo senso la musica non resta
fine a sé, ma
diventa motivo
di meditazione, conforto, preghiera ed eleva l'animo all'amore, alla
carità , alla bontà».
Dopo questa breve
carrellata storica, parlare di ogni singola marcia sarebbe un
discorso troppo lungo che richiederebbe di annoiare i lettori, per
cui mi soffermerò solo su una marcia, lo “Stabat Mater”,
abbastanza conosciuta perché viene tradizionalmente eseguita alla
ritirata dell’Addolorata (il Venerdì di Passione) e della Pietà
(il Sabato Santo). La marcia prende il nome dall’inno liturgico,
scritto in latino da Jacopone da Todi (Stabat Mater dolorosa /
iuxta crucem lacrimosa…) e sta ad indicare la presenza di Maria
ai piedi della Croce o seduta ad un masso tenendo sulle ginocchia il
corpo esanime di Gesù.
La bellezza dei versi e
il loro uso liturgico hanno richiamato l’attenzione di molti
compositori in tempi e modi diversi: in particolare, è stato
musicato oltre che da Rossini, da grandi musicisti come Scarlatti,
Pergolesi, Verdi, Donizetti, Dvorak, Vivaldi.
Lo Stabat Mater
di Rossini fu composto nel 1832 ed eseguito l’anno successivo nella
Cappella di San Felipe el Real di Madrid. Per una composizione così
lontana geograficamente l’impegno di Rossini non fu certo massimo:
dei dieci brani della sequenza solo sei vennero composti da Rossini
mentre un collaboratore, Giuseppe Tadolini, realizzò i rimanenti quattro.
Nel 1841 si rischiò la
pubblicazione della composizione in questa forma spuria e Rossini
ebbe quindi lo stimolo di revisionare l’intero spartito e comporre
i quattro numeri mancanti. La prima “ufficiale” avvenne il 7
gennaio del 1842 al Theatre des Italiens a Parigi.
A proposito di questa
marcia, dobbiamo fare un po’ di chiarezza. Esistono due versioni
per banda dello Stabat: la n. 1 e la n. 2. Come ha scritto Giovanni
Antonio del Vescovo, la versione che solitamente ascoltiamo, la
numero 1, è una riduzione fatta da un anonimo musicista molfettese.
Infatti nel manoscritto conservato presso la Biblioteca Comunale
“G.Panunzio” di Molfetta leggiamo nel foglio iniziale: «Marcia
funebre sui motivi dello Stabat Mater del maestro Gioacchino Rossini.
Molfetta, febbraio 1928», senza alcuna indicazione relativa
all’autore. Al di sotto della data, figura il nome di «Vincenzo
Avellis», un noto copista che in quell’anno avrebbe provveduto
alla trascrizione della marcia.
Una conferma ulteriore del fatto che la n.1 sia di anonimo, la
si ottiene da un altro manoscritto della Biblioteca Comunale: un
libretto risalente al 1895, del primo bombardino. Esso consta di 17
marce in repertorio della banda di fine Ottocento. Una di queste
marce è indicata semplicemente col titolo di “Stabat di Rossini”.
La versione n. 2, invece,
è una splendida riduzione dell’opera rossiniana, operata dal
Maestro Francesco Peruzzi nel 1927 e dedicata a suo figlio Giuseppe
Peruzzi junior, come leggiamo nel 1°foglio della partitura
conservata nell’archivio dell’Arciconfraternita della Morte:
«Stabat Mater n.2 di Gioacchino Rossini. Ridotto a marcia funebre
per banda. Partitura. A mio figlio Giuseppe Peruzzi, Presidente, e
agli amici Vito Binetti e Giovanni Abbattista, componenti
l’Amministrazione dell’Arciconfraternita della Morte, offro
questo modesto lavoro. Molfetta, dicembre 1927. Francesco Peruzzi».
Questa marcia, come sostiene l’autore citato, venne eseguita
fino al 1935, data dalla quale la marcia non figura più nei nuovi
libretti ricopiati da Avellis, rimanendo in uso sino ad oggi solo la
“n. 1”.
Ancora un pensiero del
compianto scrittore Gerardo de Marco: «Intorno ai tradizionali
eventi della Passione, i molfettesi hanno saputo creare una cornice
di misticismo religioso ed intensa spiritualità che, da secoli
trasmessi da padre a figlio, continuano ad affascinarci e
commuoverci».
* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.
* Foto Archivio privato del dott. Francesco Stanzione.