A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Le persone meno giovani ricorderanno che nel 1955, essendo pontefice Pio XII, con rescritto papale della Sacra Congregazione dei Riti, venne pubblicato il “Novus Ordo” che riformava le funzioni liturgiche della settimana santa. Oltre a cambiamenti relativi alla durata e allo svolgimento, si stabiliva che le funzioni del giovedì, del venerdì e del sabato santo non avessero più luogo nelle ore del mattino, bensì in quelle del pomeriggio, per quanto concerne il giovedì e venerdì santo e, per quanto riguarda invece il sabato santo, in ora notturna, onde consentire la “veglia pasquale”, come appunto accadeva secondo la più antica tradizione dei primi secoli del cristianesimo.
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Ritirata della Pietà (1930)
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Quella che apparve una innovazione rivoluzionaria, produsse una serie di mutamenti innovativi a partire dal 1956 causate sia dal costume di vita che necessariamente si rinnova, sia dall’ondata di rigenerazione che ha sommosso la Chiesa con l’avvento del Concilio Vaticano Secondo, iniziato dal pontefice Giovanni XXIII.
Molte sono le cose scomparse. L’abolizione del “Tempo di Settuagesima”: comprendeva le tre settimane che precedono immediatamente la Quaresima, cioè Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima. Questo tempo era considerato come un periodo preparatorio alla Quaresima. Nella forma odierna del rito romano, il tempo di Settuagesima ha lasciato il posto al “Tempo Ordinario”. La soppressione nella messa dell’«Alleluia» (“Alleluia” significa “Lodate Dio”; la sua etimologia risale a due radici ebraiche “Hallelu”=lodate e “Jah”=Dio) e del «Gloria in excelsis»; l’introduzione nei paramenti sacri del colore violaceo (il viola è un colore che indica un tempo di attesa e preparazione); il velamento delle sacre immagini; la sparizione dalle cappelle in cui il giovedì santo è allestito l’altare della reposizione delle corone di spine o di altro segno della Passione, giacchè il Repositorio è il luogo dove si pone l’Eucarestia, di cui si celebra l’istituzione, e non il luogo della sepoltura di Gesù; la spogliazione degli altari dopo la messa in “Coena Domini”, nel ricordo della denudazione di Gesù fatta dai soldati prima della crocifissione.
Nell’adorazione della Croce, la stessa viene portata all’altare già scoperta, non più celata da un velo violaceo, per cui lo scoprimento della Croce avveniva in tre tempi: la parte superiore, il braccio destro, l’intero restante, mentre il celebrante intonava “Ecce lignum Crucis, in quo salus mundi pependit…”(Ecco il legno della Croce, a cui fu sospesa la salvezza del mondo…”) e il coro rispondeva “Venite, adoremus” (venite, adoriamo).
Prima del Novus Ordo ai fedeli che avevano assistito alla celebrazione della funzione liturgica del venerdì santo, non veniva distribuita la Comunione. L’unico a comunicarsi era il sacerdote celebrante con l’ostia che era stata consacrata il giorno precedente e rinchiusa nell’urna dell’altare della Reposizione.
Altra usanza era quella di adornare i Sepolcri (le sebbùlche) delle chiese con piatti nei quali si facevano germogliare, alcuni mesi prima, semi di grano, lupini o lenticchie. I fasci dei lunghi steli venivano legati con nastri variopinti e portati nei Repositori. In qualche chiesa il rito dei piatti sembra rivivere.
Con il sopraggiungere della Quaresima, le famiglie tradizionalmente si preparavano a pulire le loro case, mettendo a soqquadro tutto l’ambiente casalingo, al fine di prepararsi ad accogliere degnamente la Pasqua con spirito innovativo di fede e di pulizia degli ambienti.
A mezza Quaresima (il giovedì che precede la quarta domenica di Quaresima) le famiglie si riunivano in campagna per rompere un recipiente di creta (la pegnéte) che veniva riempita di néuesce (noci), necìedde (nocelle), fàiche seccate (fichi secchi), castégne du prévete (castagne del prete), lepàiene (lupini), cìcere e fàve (ceci e fave abbrustoliti) e, col passar del tempo, anche caramelle e cioccolate. Così riempita, la pignatta veniva sospesa ad un paio di metri da terra e gli adulti, bendati e armati di bastone, dovevano cercare di romperla per il divertimento dei più piccoli. Questa usanza era il pretesto per ritrovarsi all’aria aperta primaverile e mangiare insieme u calzòene, una focaccia ripiena di pesce fritto spinato (le nùzze stùbete), cipolle (cepòdde spenzale), olive denocciolate, cavolfiore. Si tratta di una specialità gastronomica che resiste ancora ma ha perduto il suo simbolismo quaresimale in quanto “il calzone” lo si può acquistare nelle varie panetterie in tutti i mesi dell’anno.
Nella città vecchia (ind’ alla tèrre) si esponeva la quarantana (la quaréndéne). Si trattava di una fantoccia ingobbita, vestita di nero, che veniva appesa ad una corda e simboleggiava la Quaresima. Ai piedi di questa fantoccia si metteva un’arancia o una patata nella quale erano infilate sette penne di gallina: queste erano le sette settimane che separano il Carnevale dalla Pasqua. Allo scadere di ogni settimana si toglieva una penna per cui, con il sopraggiungere della settimana santa, l’arancia o la patata restava completamente spennata e la fantoccia veniva incendiata alla presenza della folla esultante.
Circa l’interpretazione antropologica di questa grottesca figura, in molti centri pugliesi la quarantana è considerata la moglie “del gaudente e crapulone Carnevale, la cui morte violenta la costringe, ovviamente, al lutto, fatto di privazioni alimentari e sessuali; necessarie non solo per rispettare le regole connesse al suo stato di vedova, ma anche per far fronte alle malefatte e agli eccessi della buonanima di suo marito”.
Un tempo l’apparizione della quarantana per le strade rappresentava l’inizio dei digiuni e delle astinenze rituali. Da tutte le mense venivano banditi la carne e i salumi. Al loro posto era ammesso il consumo di verdure, pesce e baccalà, quest’ultimo, cotto sui carboni e condito con olio crudo, limone e pepe. I venerdì di Quaresima erano invece per i più devoti, al pari del venerdì santo, giorni di digiuno e di commemorazione della Passione e Morte di Cristo.
Durante la settimana santa, i bambini non giocavano per strada né schiamazzavano perché gli adulti li esortavano a stare zitti perché Cristo era morto. Il giovedì, venerdì e sabato santo, la RAI sospendeva la normale programmazione radiofonica (la TV non ancora esisteva) e trasmetteva musica sacra o sinfonica in segno di lutto. Per me era una vera e propria penitenza non ascoltare in quei giorni le rinomate orchestre dirette da Armando Fragna e Cinico Angelini, con i cantanti Carla Boni, Gino Latilla, il Duo Fasano, Giuseppe Negroni, Clara Iaione, Nilla Pizzi, Vittoria Mongardi e altri.
A volte, particolarmente nel centro storico, si udivano grida di dolore e di disperazione al passaggio della Pietà, provenienti da donne oppresse da qualche dramma familiare: Médonne Ndelórate aiùteme! (Madonna Addolorata aiutami!), Médonne Ndelórate fàmme la grazie! (Madonna Addolorata fammi la grazia!), Médonne Ndelórate né me sì abbéndenénne! (Madonna Addolorata non mi abbandonare!), Médonne Ndelórate tàue sé re giùste! (Madonna Addolorata tu conosci la verità!).
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La Pietà in via Piazza alle ore 2,00 del Sabato Santo
(anni '50)
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La statua di Cristo Morto, durante la processione del venerdì santo, sostava nel Duomo, nella chiesa di San Pietro, nella Cattedrale, nella chiesa di San Domenico e dell’Immacolata dove si recitavano alcune salmodie e si cantava il “Vexilla regis prodeunt”.
Lungo il percorso processionale, i commercianti, spegnevano le loro insegne luminose e abbassavano per metà le serrande dei loro negozi in segno di rispetto. I macellai ritiravano temporaneamente, all’interno del loro sito di vendita, agnelli e capretti macellati, esposti in bella vista. Ora questa vista, un po’ raccapricciante, diciamolo pure, ci viene risparmiata ma per le povere bestie la sorte non sembra essere di molto cambiata: finiranno, fatte alla brace o al forno tra patate e piselli, sulle tavole pasquali
Quando la Pietà rientrava nella chiesa del Purgatorio, la gente pregava e implorava: Médonn’a benedètte, cuss’énne t’émme viste, spériéme ca te vedìmme u énne ca viene! (Madonna benedetta, quest’anno ti abbiamo vista, speriamo di vederti l’anno venturo!).
In prossimità del tamburo (u témmurre), si posizionava un venditore di tarallini zuccherati (tarall’è zucchere) appesi a ciuffi ad un triangolo di legno, innalzato da un’asta. Il triangolo rappresentava simbolicamente la saettìa, cioè la figura geometrica del triangolo sul quale ancora oggi, nella chiesa di Santo Stefano, si pongono le candele che vengono spente una per una alla fine di ogni salmo cantato.
La saettiera dell' Arciconfraternita del SS. Crocifisso
(Sessa Aurunca - CE)
Nella veglia pasquale, con lo sciogliersi delle campane era consuetudine in Cattedrale liberare delle colombe in segno di pace. Le sirene degli opifici e delle navi ancorate al porto urlavano a distesa e la gente per strada si scambiava gli auguri annunciando: Av’abbevescèauete Criste!... Av’abbevescèauete Criste!...
Non c’è dubbio che la tradizione si rinnova. Anzi, conserva le testimonianze del proprio passato che è dolce ricordare nei giorni futuri, come direbbe Virgilio (Eneide I, 203): “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”.
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* Testo del prof. Cosmo Tridente.* Foto dall' archivio personale del dott. Franco Stanzione.