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giovedì 24 marzo 2016

Ruvo, “Città di Settimana Santa”, nel ricordo della processione degli Otto Santi di un tempo

http://www.ruvesi.it/ruvo-di-puglia-citta-di-settimana-santa-nel-ricordo-della-processione-degli-otto-santi-di-un-tempo/


Dal sito "RUVESI.IT"


“Ruvo di Puglia è un comune italiano di 25.574 abitanti della città metropolitana di Bari in Puglia. Fa parte del Parco Nazionale dell’Alta Murgia, del quale ospita un ufficio operativo, ed era inclusa nella Comunità Montana della Murgia Barese Nord-Ovest. Vi ha anche sede il Museo Archeologico Nazionale Jatta che ha accresciuto la fama della città grazie alle migliaia di reperti archeologici di età ellenistica ivi conservati, tanto da assurgere a simbolo comunitario il vaso di Talos, pezzo pregiato della collezione. È inoltre il terzo comune per estensione della città metropolitana ed è una città dell’olio oltre che città d’arte”.
Così la nobile città di Ruvo di Puglia viene testualmente descritta su Wikipedia, l’enciclopedia online, ma a mio parere andrebbe aggiunto un altro appellativo: “Città di Settimana Santa”.
Infatti Ruvo, tra tutte le località pugliesi in cui vengono celebrati i riti della Settimana Santa (praticamente in tutte) è quella in cui si svolgono ben cinque processioni nell’arco di appena otto giorni (“Desolata”  il Venerdì di Passione, “Otto Santi”, “Misteri”, “Pietà” e “Cristo Risorto” dal Giovedì Santo alla Domenica di Pasqua).
Ciò la rende molto simile, relativamente alla nostra realtà, alle tre città Andaluse che dallo Stato Spagnolo hanno fino ad ora ricevuto il riconoscimento di “Città internazionale della Settimana Santa” (Siviglia, già da lungo tempo, Granada nel 2010 e Màlaga nel 2012).
Anche l’alto numero di portatori delle Sacre immagini ricorda un po’ quelle città della Spagna in cui i “Pasos” vengono portati da un considerevole numero di “Costaleros” (a Siviglia) e di “Hermanos” (Granada, Màlaga e altrove).
Al di là però delle processioni, c’è anche da segnalare (cosa non da poco) che queste vengono precedute da una intensa preparazione spirituale, dal giorno delle Ceneri in poi, per tre giorni alla settimana e fino al quarto venerdì di Quaresima, consistente nella Adorazione della S. Croce che si svolge a turno nelle  chiese in cui hanno sede le quattro Confraternite locali (Purificazione Addolorata, San Rocco, Carmine e Suffragio).
Inoltre Ruvo, similmente a Molfetta, Bitonto e Taranto, può vantare un patrimonio di grande valore musicale per via delle marce funebri che vengono suonate al seguito delle processioni, quasi tutte opera di valenti Maestri locali tra i quali, su tutti, svettano i nomi dei fratelli Antonio ed Alessandro Amenduni; del primo è famosa “Il pianto dell’Orfano”, conosciutissima anche fuori dai confini cittadini ed apprezzatissima da tanti altri Maestri che la fanno eseguire dalle Bande Musicali da loro dirette non solo in Puglia ma anche in Sicilia e, da notizie recentemente apprese, addirittura nell’isola di Malta.
Se a tutto ciò si aggiunge la singolare tradizione della “Quarantana”, non è illegittimo affermare che la Settimana Santa “rubastina” è tra le più complete e suggestive, dal punto di vista religioso ed estetico, di tutta la Puglia, e che a buon diritto merita di essere conosciuta e divulgata.
Per questo motivo ho cominciato a frequentare la città di Ruvo da quando, conseguita la patente a diciotto anni (parliamo degli anni 1974/75), sono diventato autonomo nei miei trasferimenti fuori Molfetta per conoscere ciò che altrove avviene durante la Settimana Santa.
In quegli anni si poteva avere notizia delle tradizioni dei paesi limitrofi durante quei sacri giorni, solo attraverso il racconto di chi aveva personalmente, sporadicamente o per caso, assistito ai riti  e di Ruvo (nonostante la vicinanza a Molfetta) si conosceva assai poco; non esisteva ancora “internet” e non vi erano nemmeno libri sull’argomento.
Non si era ancora giunti al 1992, anno in cui vide la luce la pregevolissima pubblicazione di Francesco Di Palo “Stabat Mater Dolorosa” in cui, tra le altre “Settimane Sante” pugliesi c’era anche quella di Ruvo, seguita due anni dopo (dello stesso autore) da “Passione e Morte” che sancì la definitiva fama dei riti pasquali ruvesi.
A quell’epoca la processione dei Misteri di Molfetta, per una cattiva (o capziosa) interpretazione del “Novus Ordo” del 1955, non usciva più, da ormai una ventina d’anni, alle ore 4.00 del mattino del Venerdì Santo, ma al corrispondente orario del pomeriggio; pertanto, per poter rivivere (vivere,  nel mio caso, essendo nato proprio il 1955) quell’atmosfera che si creava con la negata uscita notturna, quale occasione migliore poteva esserci se non andare a Ruvo nelle prime ore del Giovedì Santo ed assistere all’uscita degli Otto Santi?
Ricordo, come fosse ora, minuto per minuto, tutte le sensazioni provate in quella indimenticabile nottata, che oserei definire da sogno.
Giunsi a Ruvo verso le ore 2.00 in compagnia di un amico (molto più grande di me e purtroppo scomparso da qualche anno) e fui colpito dalle strade deserte e dal silenzio che in esse regnava; ad un tratto il silenzio cedette il passo ad un lontano rumore cadenzato che man mano andava intensificandosi e facendosi riconoscere come un rullio di tamburo continuo, intervallato da un colpo di grancassa.
Ci dirigemmo verso quel suono e ben presto avvistammo, in effetti, un ragazzo dalla giovanissima età con il tamburo, accompagnato da un signore anziano con la grancassa, che suonavano i loro strumenti camminando con passo alquanto celere: erano i due musicanti che andavano per le  vie della città, facendo la cosiddetta “chiamata” ai confratelli.
Ci ritrovammo, quasi per caso, in un bar di via Avitaia, gremito di uomini intenti ad indossare quello che pensavamo fosse un abito confraternale (in realtà non erano confratelli, ma i portatori degli “Otto Santi” che si preparavano a raggiungere, già in abito di rito, la poco distante Chiesa di San Rocco) dalla quale avrebbe avuto inizio la processione; mi chiesi il perché di quella vestizione in un luogo diverso dalla chiesa, ed appresi ben presto che il titolare del locale, il signor Montaruli, era il capo di quella “squadra” di portatori.
All’ora stabilita dalla tradizione, ascoltammo nella adiacente piazza Menotti Garibaldi l’esecuzione della bellissima “Una lagrima sulla tomba di mia madre”, ben più nota con il nome del suo autore, Alberto Vella, siciliano nato a Naro.
La banda suonava nel silenzio assoluto, alla presenza di uno sparuto gruppo di quelli che, come noi, dovevano essere gli “irriducibili” ruvesi delle marce funebri, e le note si libravano nitide nell’aria freddissima di quell’ora notturna, coinvolgendomi in un turbinio di sensazioni che andavano dalla euforia alla esaltazione, perchè il mio pensiero andava a quanto doveva essere suggestiva l’uscita dei nostri Misteri alle 4.00 del mattino, alimentando ancor più in me il desiderio di vivere quegli stessi momenti a Molfetta.
Terminata l’esecuzione della marcia funebre, ci accodammo a quanti celermente raggiunsero piazza Matteotti per attendere l’uscita degli “Otto Santi” che, già  sistemati sui cavalletti immediatamente dietro l’angusto portone della Chiesa di San Rocco, furono poco dopo portati fuori al suono di “Eterno Dolore”, straziante marcia funebre di Evaristo Pancaldi.
Al cessare della musica il gruppo scultoreo del Caretta fu nuovamente appoggiato sui cavalletti e, dopo una breve preghiera, riprese il suo cammino per compiere il suo tradizionale itinerario notturno, imboccando via Modesti al suono di “Povero Ettore” di Francesco Porto.
Velocemente, per vie traverse, raggiungemmo la testa della processione per vedercela sfilare dall’inizio alla fine e fui colpito dalla compostezza dei partecipanti che, distanziati tra loro, procedevano in silenzio reggendo la candela accesa. Dalla nostra postazione, all’angolo tra via Modesti e via Cattedrale, era possibile vedere la processione praticamente nella sua interezza e  lì rimanemmo fino al passaggio delle Sacre Immagini, avvolte in una nuvola di incenso: pareva di vedere dal vero il trasporto di Gesù Morto al Sepolcro. Il silenzio (diversamente da quanto accade ahimè durante le nostre processioni) era tale che si sentiva lo strusciare dei piedi dei portatori sul pavimento stradale.
Erano intanto quasi le ore 4.00 del mattino e bisognava ritornare a casa.
Con questa “onirica” immagine impressa negli occhi, ripercorremmo in auto i quasi quindici chilometri della vecchia via che collega Ruvo a Molfetta, con il rimpianto di essere andati via così presto, ma con la consapevolezza di dover necessariamente riposare per affrontare, nel pieno delle proprie forze, tutti gli eventi dell’ormai sopraggiunto “Triduo Pasquale” molfettese.
Ho rivisto più volte, da allora, la processione degli “Otto Santi”; la vestizione dei portatori avviene ancora in quello stesso bar, ma la gente che assiste alla esecuzione di “Vella” in piazza Menotti Garibaldi e all’uscita del “Gruppo” dalla Chiesa di San Rocco è diventata da sparuto gruppo una grande folla (tra cui molti molfettesi) ed intanto a Molfetta l’uscita dei “Misteri” è ritornata alle tanto invocate e desiderate ore del primo mattino del Venerdì Santo.
Intatte sono però rimaste la serietà e la compostezza dei Confratelli di San Rocco e di chi assiste al passaggio delle Sacre Immagini, nonché tutto ciò che fa da contorno all’evento, creando anno dopo anno una atmosfera quasi surreale in cui pare che il tempo si fermi, anzi che le lancette dell’orologio tornino indietro, nel mio caso a quella lontana metà degli anni settanta del secolo scorso … e questo si chiama “rispetto della tradizione” in una città che può davvero essere definita “di Settimana Santa”.

* Testo a cura del dott. Francesco Stanzione.

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