Dal sito "RUVESI.IT"
“Ruvo di Puglia è un comune
italiano di 25.574 abitanti della città metropolitana di Bari in Puglia. Fa
parte del Parco Nazionale dell’Alta Murgia, del quale ospita un ufficio
operativo, ed era inclusa nella Comunità Montana della Murgia Barese
Nord-Ovest. Vi ha anche sede il Museo Archeologico Nazionale Jatta che ha
accresciuto la fama della città grazie alle migliaia di reperti archeologici di
età ellenistica ivi conservati, tanto da assurgere a simbolo comunitario il
vaso di Talos, pezzo pregiato della collezione. È inoltre il terzo comune per
estensione della città metropolitana ed è una città dell’olio oltre che città
d’arte”.
Così la nobile città di Ruvo di Puglia viene testualmente descritta su
Wikipedia, l’enciclopedia online, ma a mio parere andrebbe aggiunto un altro
appellativo: “Città di Settimana Santa”.
Infatti Ruvo, tra tutte le località pugliesi in cui vengono celebrati
i riti della Settimana Santa (praticamente in tutte) è quella in cui si
svolgono ben cinque processioni nell’arco di appena otto giorni (“Desolata” il Venerdì di Passione, “Otto Santi”, “Misteri”, “Pietà” e “Cristo Risorto” dal Giovedì Santo alla Domenica di Pasqua).
Ciò la rende molto simile, relativamente alla nostra realtà, alle tre
città Andaluse che dallo Stato Spagnolo hanno fino ad ora ricevuto il
riconoscimento di “Città internazionale della
Settimana Santa” (Siviglia, già da lungo tempo, Granada nel 2010 e Màlaga
nel 2012).
Anche l’alto numero di portatori delle Sacre immagini ricorda un po’ quelle
città della Spagna in cui i “Pasos”
vengono portati da un considerevole numero di “Costaleros” (a Siviglia) e di “Hermanos”
(Granada, Màlaga e altrove).
Al di là però delle processioni, c’è anche da segnalare (cosa non da
poco) che queste vengono precedute da una intensa preparazione spirituale, dal
giorno delle Ceneri in poi, per tre giorni alla settimana e fino al quarto
venerdì di Quaresima, consistente nella Adorazione della S. Croce che si svolge
a turno nelle chiese in cui hanno sede
le quattro Confraternite locali (Purificazione Addolorata, San Rocco, Carmine e
Suffragio).
Inoltre Ruvo, similmente a Molfetta, Bitonto e Taranto, può vantare un
patrimonio di grande valore musicale per via delle marce funebri che vengono
suonate al seguito delle processioni, quasi tutte opera di valenti Maestri
locali tra i quali, su tutti, svettano i nomi dei fratelli Antonio ed
Alessandro Amenduni; del primo è famosa “Il
pianto dell’Orfano”, conosciutissima anche fuori dai confini cittadini ed
apprezzatissima da tanti altri Maestri che la fanno eseguire dalle Bande
Musicali da loro dirette non solo in Puglia ma anche in Sicilia e, da notizie
recentemente apprese, addirittura nell’isola di Malta.
Se a tutto ciò si aggiunge la singolare tradizione della “Quarantana”, non è illegittimo
affermare che la Settimana Santa “rubastina”
è tra le più complete e suggestive, dal punto di vista religioso ed estetico,
di tutta la Puglia, e che a buon diritto merita di essere conosciuta e
divulgata.
Per questo motivo ho cominciato a frequentare la città di Ruvo da
quando, conseguita la patente a diciotto anni (parliamo degli anni 1974/75), sono
diventato autonomo nei miei trasferimenti fuori Molfetta per conoscere ciò che
altrove avviene durante la Settimana Santa.
In quegli anni si poteva avere notizia delle tradizioni dei paesi
limitrofi durante quei sacri giorni, solo attraverso il racconto di chi aveva
personalmente, sporadicamente o per caso, assistito ai riti e di Ruvo (nonostante la vicinanza a Molfetta)
si conosceva assai poco; non esisteva ancora “internet” e non vi erano nemmeno libri sull’argomento.
Non si era ancora giunti al 1992, anno in cui vide la luce la
pregevolissima pubblicazione di Francesco Di Palo “Stabat Mater Dolorosa” in cui, tra le altre “Settimane Sante” pugliesi c’era anche quella di Ruvo, seguita due
anni dopo (dello stesso autore) da “Passione
e Morte” che sancì la definitiva fama dei riti pasquali ruvesi.
A quell’epoca la processione dei Misteri di Molfetta, per una cattiva
(o capziosa) interpretazione del “Novus
Ordo” del 1955, non usciva più, da ormai una ventina d’anni, alle ore 4.00
del mattino del Venerdì Santo, ma al corrispondente orario del pomeriggio;
pertanto, per poter rivivere (vivere,
nel mio caso, essendo nato proprio il 1955) quell’atmosfera che si
creava con la negata uscita notturna, quale occasione migliore poteva esserci
se non andare a Ruvo nelle prime ore del Giovedì Santo ed assistere all’uscita
degli Otto Santi?
Ricordo, come fosse ora, minuto per minuto, tutte le sensazioni
provate in quella indimenticabile nottata, che oserei definire da sogno.
Giunsi a Ruvo verso le ore 2.00 in compagnia di un amico (molto più
grande di me e purtroppo scomparso da qualche anno) e fui colpito dalle strade
deserte e dal silenzio che in esse regnava; ad un tratto il silenzio cedette il
passo ad un lontano rumore cadenzato che man mano andava intensificandosi e
facendosi riconoscere come un rullio di tamburo continuo, intervallato da un
colpo di grancassa.
Ci dirigemmo verso quel suono e ben presto avvistammo, in effetti, un
ragazzo dalla giovanissima età con il tamburo, accompagnato da un signore
anziano con la grancassa, che suonavano i loro strumenti camminando con passo
alquanto celere: erano i due musicanti che andavano per le vie della città, facendo la cosiddetta “chiamata” ai confratelli.
Ci ritrovammo, quasi per caso, in un bar di via Avitaia, gremito di
uomini intenti ad indossare quello che pensavamo fosse un abito confraternale
(in realtà non erano confratelli, ma i portatori degli “Otto Santi” che si preparavano a raggiungere, già in abito di
rito, la poco distante Chiesa di San Rocco) dalla quale avrebbe avuto inizio la
processione; mi chiesi il perché di quella vestizione in un luogo diverso dalla
chiesa, ed appresi ben presto che il titolare del locale, il signor Montaruli,
era il capo di quella “squadra” di
portatori.
All’ora stabilita dalla tradizione, ascoltammo nella adiacente piazza
Menotti Garibaldi l’esecuzione della bellissima “Una lagrima sulla tomba di mia madre”, ben più nota con il nome
del suo autore, Alberto Vella, siciliano nato a Naro.
La banda suonava nel silenzio assoluto, alla presenza di uno sparuto
gruppo di quelli che, come noi, dovevano essere gli “irriducibili” ruvesi delle marce funebri, e le note si libravano
nitide nell’aria freddissima di quell’ora notturna, coinvolgendomi in un
turbinio di sensazioni che andavano dalla euforia alla esaltazione, perchè il
mio pensiero andava a quanto doveva essere suggestiva l’uscita dei nostri
Misteri alle 4.00 del mattino, alimentando ancor più in me il desiderio di
vivere quegli stessi momenti a Molfetta.
Terminata l’esecuzione della marcia funebre, ci accodammo a quanti
celermente raggiunsero piazza Matteotti per attendere l’uscita degli “Otto Santi” che, già sistemati sui cavalletti immediatamente
dietro l’angusto portone della Chiesa di San Rocco, furono poco dopo portati
fuori al suono di “Eterno Dolore”,
straziante marcia funebre di Evaristo Pancaldi.
Al cessare della musica il gruppo scultoreo del Caretta fu nuovamente
appoggiato sui cavalletti e, dopo una breve preghiera, riprese il suo cammino
per compiere il suo tradizionale itinerario notturno, imboccando via Modesti al
suono di “Povero Ettore” di Francesco
Porto.
Velocemente, per vie traverse, raggiungemmo la testa della processione
per vedercela sfilare dall’inizio alla fine e fui colpito dalla compostezza dei
partecipanti che, distanziati tra loro, procedevano in silenzio reggendo la
candela accesa. Dalla nostra postazione, all’angolo tra via Modesti e via
Cattedrale, era possibile vedere la processione praticamente nella sua
interezza e lì rimanemmo fino al
passaggio delle Sacre Immagini, avvolte in una nuvola di incenso: pareva di
vedere dal vero il trasporto di Gesù Morto al Sepolcro. Il silenzio
(diversamente da quanto accade ahimè durante le nostre processioni) era tale
che si sentiva lo strusciare dei piedi dei portatori sul pavimento stradale.
Erano intanto quasi le ore 4.00 del mattino e bisognava ritornare a casa.
Con questa “onirica”
immagine impressa negli occhi, ripercorremmo in auto i quasi quindici
chilometri della vecchia via che collega Ruvo a Molfetta, con il rimpianto di essere
andati via così presto, ma con la consapevolezza di dover necessariamente riposare
per affrontare, nel pieno delle proprie forze, tutti gli eventi dell’ormai
sopraggiunto “Triduo Pasquale”
molfettese.
Ho rivisto più volte, da allora, la processione degli “Otto Santi”; la vestizione dei
portatori avviene ancora in quello stesso bar, ma la gente che assiste alla
esecuzione di “Vella” in piazza
Menotti Garibaldi e all’uscita del “Gruppo”
dalla Chiesa di San Rocco è diventata da sparuto gruppo una grande folla (tra
cui molti molfettesi) ed intanto a Molfetta l’uscita dei “Misteri” è ritornata alle tanto invocate e desiderate ore del
primo mattino del Venerdì Santo.
Intatte sono però rimaste la serietà e la compostezza dei Confratelli
di San Rocco e di chi assiste al passaggio delle Sacre Immagini, nonché tutto
ciò che fa da contorno all’evento, creando anno dopo anno una atmosfera quasi
surreale in cui pare che il tempo si fermi, anzi che le lancette dell’orologio
tornino indietro, nel mio caso a quella lontana metà degli anni settanta del
secolo scorso … e questo si chiama “rispetto
della tradizione” in una città che può davvero essere definita “di Settimana Santa”.
* Testo a cura del dott. Francesco Stanzione.
* Testo a cura del dott. Francesco Stanzione.
Nessun commento:
Posta un commento